Tempo di lettura: 5 minuti
L’agenzia di rating Moody’s ha avvertito che il 19 maggio potrebbe declassare il debito italiano, portandolo dall’attuale livello di Baa3 con outlook negativo (ultimo livello di “investment grade”), al livello Ba1, cioè la prima classe di “junk bond”.
Il contesto non è roseo
L’Italia è stata segnalata, in un rapporto anticipato da Bloomberg, come l’unico Paese a rischio di perdita del rating di investment grade sul proprio debito.
Si legge nel report di Moody’s come la nostra economia, che rimane pur sempre la terza più importante dell’area euro, stia scontando grossi problemi strutturali, quali una crescita lenta (o inesistente), un invecchiamento della popolazione unito ad un forte calo delle nascite (che sta mettendo forte pressione sulla tenuta del sistema previdenziale) e un aumento della spesa legata al finanziamento del suo enorme debito, pari oggi a più del 140% del PIL, con un conseguente naturale indebolimento della posizione fiscale.
Secondo Moody’s, la situazione di favore con cui l’Italia ha potuto finora finanziarsi sui mercati, con i rendimenti sul BTP decennale rimasti per lo più stabili rispetto a quelli sul Bund tedesco, non sarebbe destinata a durare e presto potrebbe vedersi un nuovo ampliamento della forbice di spread fra i due Paesi.
Sono di parere opposto invece le altre due importanti agenzie di rating S&P e Fitch, che per il momento confermano il loro giudizio di BBB con outlook stabile.
Il monito arriva dopo che il governo si era visto costretto ad ammettere di non riuscire a spendere una buona parte dei fondi del PNRR, reputando alcuni progetti in esso contenuti come “matematicamente non realizzabili”; ma anche dopo che il ministro Giorgetti aveva reso noto che dal 2026 la spesa per il pagamento degli interessi sul debito italiano salirà dagli attuali 60 mld fino a superare la cifra stellare dei 100 mld. Rendendo così il margine di manovra per investimenti volti alla crescita sempre più stretto
La situazione è ulteriormente aggravata da altri due fattori.
La politica monetaria restrittiva della BCE si sviluppa con l’aumento dei tassi di interesse, ma anche con la fine degli acquisti di titoli di Stato dei Paesi membri, dei quali l’Italia era uno dei massimi beneficiari.
Ciò significa che l’Italia sarà d’ora in avanti costretta a rifinanziare la propria mole di debito tutta sul mercato e per farlo dovrà rendere più appetibili i propri titoli di Stato, aumentandone i rendimenti e facendo quindi crescere la spesa per il pagamento degli interessi, in una spirale pericolosa.
Le attuali trattative per reintrodurre in Europa il patto di stabilità non stanno dando i risultati sperati, poiché la voce tedesca – preponderante – sta spingendo per il ritorno alle stringenti regole di bilancio pre-covid, che imponevano una forte riduzione del debito pubblico e che conteggeranno ora (immotivatamente) come debito da tagliare anche le spese per investimenti legati al PNRR.
L’investimento in BOT e BTP è un porto sicuro?
I dati ci raccontano con chiarezza che gli italiani prediligono la protezione del risparmio rispetto all’investimento e che il posto nettamente più gettonato in cui stipare i risparmi “in sicurezza” sia rappresentato dall’acquisto di BOT e di BTP emessi dallo Stato italiano.
Dopo la crisi del debito pubblico del 2011, cui era seguito il primo declassamento di rating dell’Italia e soprattutto, nella quale eravamo andati molto vicini al fallimento, il rapporto emesso oggi da Moody’s accende però nuovamente i riflettori sulla situazione economica italiana e, quindi, anche sull’opportunità di investire i propri risparmi nei nostri cari e amati titoli di Stato.
Ma cosa comporterebbe il declassamento di Moody’s?
È innanzitutto giusto sottolineare che non significherebbe rischio imminente di fallimento. Circostanza che, almeno per il momento, reputo molto remota.
Senza considerare la componente speculativa, che si potrebbe facilmente innestare e che porterebbe a forti oscillazioni sui prezzi, quello che però si determinerebbe con alta probabilità sarebbe un immediato e forte deprezzamento dei titoli di Stato in circolazione, perché il loro valore inizierebbe ad incorporare un maggior livello di rischio di credito legato all’emittente. In altre parole, siccome l’Italia sarebbe considerata meno sicura ed esisterebbero maggiori possibilità che il debito possa non venir in futuro ripagato, il prezzo dei titoli scenderebbe, perché gli investitori sarebbero disposti a pagarli molto meno, considerandoli come più rischiosi.
E non solo per questo motivo: infatti, dovendo i BTP di nuova emissione fornire già da subito rendimenti più alti rispetto a prima, per poter remunerare correttamente il nuovo grado di rischio ed essere quindi appetibili, automaticamente anche i titoli in circolazione subirebbero un secondo deprezzamento, perché meno ambiti rispetto a quelli di nuova emissione, che offrirebbero rendimenti maggiori già in partenza.
Chi avesse investito in titoli di Stato italiani si troverebbe quindi ad affrontare una perdita di valore importante del proprio investimento, cosa grave perché in grado di pregiudicare, da un lato, le esigenze di bilanciamento che questi strumenti dovrebbero soddisfare all’interno del portafoglio e, dall’altro e ancora peggio, quelle di protezione dei risparmi accumulati.
Questo inconveniente potrebbe essere mitigato portando a scadenza i titoli e incassando così il rimborso del loro valore nominale, sempre a patto di aver strutturato bene il portafoglio, in modo da non aver bisogno dei soldi impiegati prima del tempo.
I danni potrebbero invece essere molto più gravi se l’investimento fosse stato fatto mediante un ETF o un fondo di investimento. In questo caso, non potendo mai portare a scadenza, si subirebbe in pieno il crollo di valore dei titoli in pancia al fondo, con perdite in portafoglio difficili da recuperare.
Consigli e precauzioni per un investimento in obbligazioni
Proprio per quanto appena detto, è in teoria molto meglio e più sicuro investire la quota di titoli di Stato del portafoglio acquistandoli direttamente e non mediante un fondo di investimento o ETF.
Un secondo elemento da considerare è che un ulteriore deterioramento dell’economia, del debito italiano e finanche un fallimento dello Stato, in assenza delle opportune riforme, sono cose che nessuno può realisticamente escludere nei prossimi 5 – 10 o addirittura 15 – 20 anni. Soprattutto se si pensa alla spirale di aumento dei rendimenti e quindi della spesa da interessi, di cui ho parlato a inizio articolo.
Per cui, per chi ritenga di voler investire parte del proprio capitale o di voler proteggere i propri risparmi nel debito italiano, è consigliabile comprare solo le scadenze brevi, cioè massimo 2 – 3 anni, meglio se 1 – 2 anni.
Oltre all’incertezza dello scenario, che impone una navigazione a vista, ci sono altre due motivazioni che spingono per questo tipo di preferenza.
La prima è legata ad un discorso di prezzo, perché le obbligazioni con durata breve sono molto meno soggette a cali di valore rispetto a quelle con durata più lunga. Per cui, investendo in scadenze ravvicinate, anche se i titoli dovessero deprezzarsi sensibilmente per un declassamento di rating, il portafoglio ne soffrirebbe meno e si potrebbe anche, eventualmente, pensare di liquidare l’investimento senza perdere più di tanto in conto capitale.
La seconda è legata ai rendimenti attesi: oggi, la forma della curva dei rendimenti in Italia (pur non essendo invertita, come ad esempio avviene in Francia o Germania, dove i rendimenti a lunga sono minori di quelli a breve scadenza), è molto schiacciata. Per cui il maggior rischio legato ad un investimento su titoli a scadenza lontana non è correttamente remunerato dai rendimenti offerti e il gioco non vale la candela. Al momento, c’è meno di un punto percentuale di differenza fra il rendimento di un BTP a 1 anno e quello di un BTP a 10 anni. Mentre la differenza scende a meno di mezzo punto fra un titolo a 5 anni e uno a 10 anni.
Vero è che investendo a breve scadenza ci si troverà a dover reinvestire il capitale più sovente e si sarà più esposti al cosiddetto rischio di reinvestimento (non riuscire cioè a reinvestire il capitale alle stesse condizioni di prima, bensì a condizioni peggiori). Ma è un rischio che, nell’economia del portafoglio e specialmente in relazione alla funzione cui le obbligazioni sono chiamate (cioè dare, non rendimento, ma stabilità o protezione), è comunque poca cosa e merita di essere comunque corso.
Infine, è bene comunque diversificare sempre il più possibile.
Pertanto, se la strategia di investimento prevede un 40% di obbligazioni, non avrebbe alcun senso investire tutta la somma e andare “All In” sui BTP, perché appena qualcosa dovesse andare storto, tutta la mia componente obbligazionaria ne risentirebbe fortemente.
A maggior ragione, quando questa è la quota che dovrebbe fornire stabilità e sicurezza al mio portafoglio, bilanciando i maggiori rischi che ci si è magari assunti in altri settori, ricercando rendimenti soddisfacenti.
Per cui, un patrimonio, come spesso si vede, ad esempio di 200000 euro, votato al “risparmio”, in cui si destina il 70% in obbligazioni e poi però ci sono 150000 euro tutti investiti in BTP a media-lunga scadenza, non sta raggiungendo il suo scopo, perché l’investitore non potrà mai dire di aver messo al sicuro il capitale o di avere un investimento bilanciato.
Meglio allora guardarsi intorno e vedere che, ad esempio, oggi un titolo tedesco (rating AAA) o francese (rating AA) a 1 anno rendono un dignitoso 3,1% (a fronte del 3,4% di quello italiano).
Titoli che permettono di stabilizzare il portafoglio per poter aggredire su altri segmenti con le spalle coperte o, a seconda degli obiettivi, di proteggere davvero il capitale, dormendo sonni tranquilli.
Insomma, a conti fatti sono ormai passati i tempi in cui investire in BTP era sinonimo di sicurezza.
Oggi purtroppo il debito italiano è tutt’altro che un porto tranquillo per i nostri risparmi e, per di più, offre rendimenti che non sono in linea con il suo reale livello di rischio, anche in relazione al panorama disponibile.
Meglio rivolgere l’attenzione oltralpe, dove – anche grazie alla risalita dei tassi di interesse – sono presenti titoli a scadenza breve (quindi a bassa volatilità di prezzo) con rendimenti interessanti, specie se rapportati ad un livello di rischio praticamente nullo.